Notti Invisibili, Giorni Sconosciuti - Recensione
“Notti invisibili, giorni sconosciuti” di Bae Suah è un racconto lungo pubblicato in Italia nel 2020 da ADD Editore. La narrazione segue Ayami, una giovane donna coreana che lavora all’interno di un “teatro sonoro”, luogo frequentato per lo più da non vedenti e studenti, e che improvvisamente si trova senza lavoro. Dopo una serie di incontri con personaggi che sembrano usciti da un sogno, Ayami si ritrova a fare una passeggiata serale con il direttore del teatro e nella notte i confini con la realtà, o ciò che sembra tale, si confondono fino a diventare impalpabili.
Diviso in quattro parti il racconto non vedrà protagonista soltanto Ayami, ma anche Yŏni una donna di quarantanove anni, un giovane di nome Puha, un romanziere chiamato Wolpy, il direttore del teatro e un poeta sconosciuto, che tutto si sarebbe aspettato tranne che vivere più a lungo di chi ha incontrato. E ancora tanti, molti altri che compaiono come spettri e come spettri svaniscono. Ayami sembra essere solo il nome della figura seguita dal lettore e che si fa attrice delle varie storie che si intrecciano nel libro.
Il primo elemento a delinearsi è un’atmosfera di carattere surreale immediatamente stabilita dalla rappresentazione di questo “teatro sonoro”: un luogo in cui la performance consiste nella trasmissione di tracce audio registrate.
Ben presto l’ambientazione passa ad allargarsi a una Seoul oppressa da un caldo torrido, un’afa che si posa come una coperta sulla città fino a soffocarla. Seoul viene ritratta come una enorme bestia divorata dal calore, un calore in cui non c’è vento, non c’è ombra, in cui non c’è riparo e tutto viene inghiottito dalle fiamme di un caldo bruciante che non lascia tregua nemmeno al sonno dei suoi abitanti. È una città in cui sembra predominare una morte stagnante e decadente, persa nel tempo, e in cui i personaggi sembrano a loro volta deperire e lentamente svanire.
Un altro degli elementi predominanti è infatti il bianco, colore tradizionalmente associato alla morte in molte culture orientali, costantemente presente: un abito in cotone bianco, un autobus bianco, un corvo bianco.
A trascinare poi nella lettura è l’atmosfera fortemente onirica che si instaura dalle prime pagine, dettata non solo da apparizioni di personaggi inusuali, drammatici, dalle forti connotazioni fisiche e dalle azioni violente, volgari o anche del tutto quotidiane, ma anche dalla ripetizione di interi passaggi simili a leitmotiv, come quell’oggetto che compare in ogni sogno, come quel personaggio ricorrente in un libro. È una gonna che si alza senza che ci sia un refolo di vento, delle scarpe nuove, ma di qualità scadente, occhi iniettati da capillari rossi, labbra disidratate, una ragazza cieca che passeggia con il suo bastone, una mano che si poggia su un polso esercitando una leggera pressione, quasi “come un invito”. Un sistema ispirato dichiaratamente da “La civetta cieca” di Sadeq Hedayat, intellettuale iraniano che nel suo libro scrive della discesa nella coscienza umana.
Ciò che poi arriva con più forza al lettore, e che lo rapisce, sono le emozioni e le sensazioni trasmesse dall’autrice con il suo stile di scrittura. Quello che più colpisce è il modo in cui in ogni pagina i personaggi, e di conseguenza il lettore, vengono quasi privati di un senso in modo tale che ne venga acuito un secondo: ora la vista, nell’appuntamento a cena con il direttore nel ristorante al buio; ora l’udito, quando Ayami sembra solo in grado di leggere le labbra o descrive la voce del vecchio poeta; ora il tatto, esaltato dalla sensazione di calura opprimente e mancanza di ossigeno; ora l’olfatto, nelle precise descrizioni degli odori che pervadono la città o che aleggiano sui suoi abitanti. Il tutto viene accompagnato da vivide descrizioni dei personaggi, quasi grottesche nell’incisività di colori e nei dettagli dei volti.
Quando poi l’autrice decide di togliere qualsiasi stimolo sensoriale, ciò che rimane sono solo emozioni, esattamente come alcuni personaggi descrivono se stessi, ovvero proprio dicendo di “essere emozione”.
Il tema principale del racconto si può forse riassumere in poche parole prese dalle sue pagine:“Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”; questa citazione colpisce dritta al cuore del libro, anche se presenta quelle domande che rimarranno senza risposta, esattamente come le vicende presentate nella storia. Chi sono questi personaggi esattamente? Da dove vengono? Dove stanno andando? Dove arriveranno?
Nei dialoghi che si avvicendano e che sembrano quasi tratti dal teatro dell’assurdo, dove gli attori si rispondono a volte senza connessioni logiche, noi non vediamo solo Ayami o il direttore, ma delle altre persone che si sovrappongono a loro in un tempo che appare tutto fuorché lineare. Nell’incedere frammentario della narrazione Ayami si confonde con Yŏni, l’insegnante di tedesco. O è forse una lavoratrice di una linea telefonica hard? E Ayami è l’ex-attrice che incontriamo all’inizio o una poetessa dalla faccia segnata dal vaiolo? E il direttore? Chi sono questi due personaggi? Dei protagonisti di un romanzo giallo non ancora scritto? O semplicemente dei fantasmi, dei sogni?
La sensazione, dopo la lettura di poche pagine dall’inizio del libro, è che i suoi protagonisti appaiano morti e stagnanti esattamente come la città in cui vivono e che non concede loro riposo. Non sono nessuno o forse tanti in uno; non sanno da dove vengono, ma ricordano; non vanno da nessuna parte e se ci vanno non sanno quale sia la meta. Come degli spettri vivono in una metropoli di invisibili, attori in uno spazio in cui ogni loro azione è teatro, ma in cui l’azione non ha per forza significato o non ha obbligatoriamente una spiegazione.
Di spiegazioni, poi, per il lettore
potrebbero essercene tante, ma ciò che rimane alla fine è il dubbio che non
siano davvero necessarie.
La forza delle descrizioni di
sensazioni, di personaggi e ambienti è il vero tesoro della sua scrittura; la
trama, come detto in precedenza, non presenta un impianto classico: appare
frammentaria e non è guidata da una successione di eventi ben definiti e
potrebbe per questo apparire a molti di difficile lettura, mentre io penso sia
il secondo gioiello che questo libro regala.
Leggendo questo racconto sembra di leggere un sogno, a tratti un incubo, velato di una profonda malinconia e allo stesso tempo di quella speranza insita in ogni essere umano che niente riesce a far tacere anche quando sembra taccia già da tempo. È un incubo di morte, immobilità, decadenza e decomposizione; un viaggio nei pensieri più bui che scaturiscono dall’idea del fallimento, della paura del futuro, dell’assenza di controllo sulle proprie vite, della mancanza di un passato. Per contrapposizione è anche però un sogno di vita, di una comunicazione tra mondi che si intravedono, ma non riescono a toccarsi.
Bae Suah ci racconta di fantasmi, di
istanti fermi nel tempo, di vite sospese, che tramite le sue parole si fanno
carne e ossa, emozioni e sensazioni.
“Le
fotografie prendono le distanze dagli obiettivi e dalle finalità che si era
prefisso chi le ha scattate e si affermano come la vera e unica prova in grado
di dimostrare che noi non siamo uomini, ma fantasmi”
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